Marzo 1968, Kansas.
“Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.
Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari.
Comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani“.
Robert Kennedy
Belle parole, oratoria sopraffina, discorso esemplare, (specie se paragonato a quelli dei “politici” contemporanei) ma, come qualcuno potrebbe obiettare, privo di spunti concreti.
Infatti, sebbene (e con che lucidità) Robert Kennedy metteva in discussione uno dei dogmi del sistema liberale, non scioglieva alcuno degli interrogativi di fondo: come si misura la prosperità di una nazione? e soprattutto, DA COSA DIPENDE ?
La risposta al primo quesito è racchiusa nel concetto di BENESSERE SOCIALE: aspettative di vita, grado d’inquinamento, standards dei servizi pubblici, indice di criminalità, tasso di disoccupazione, livello delle retribuzioni medie, copertura sanitaria, sono solo alcune delle variabili che misurano il progresso raggiunto.
Alcune di esse dipendono dalla ricchezza prodotta (e dunque dal pil); altre, invece, dalla capacità/attitudine di uno Stato di distribuire risorse, altre ancora dalla sostenibilità di un’economia.
La Cina, ad esempio, vanta, già da molti anni, una crescita economica impetuosa che, tuttavia, ha garantito benessere solo ad una parte della popolazione: ancora in tanti, infatti, vivono in condizione di semischiavitù, condannati a turni di lavoro massacranti, all’interno di fabbriche – lager.
Una crescita tanto repentina, inoltre, ha trasformato alcuni “distretti” del gigante asiatico in vere e proprie “discariche a cielo aperto”, mentre molte città giacciono sotto una perenne coltre di smog che rende l’aria irrespirabile.
Il Pil di quella nazione ci dice che alcuni si sono arricchiti; che siano felici è tutto da verificare.
Dunque, la sola produzione di “ricchezza” non garantisce, di per sé, il progresso; è condizione necessaria, non certo sufficiente!
Tali considerazioni consentono di rispondere anche al secondo interrogativo: la prosperità di una Nazione dipende dalla sua evoluzione CULTURALE, nell’accezione più ampia del suo significato.
La sola “conoscenza tecnica”, infatti, se non arricchita da principi morali e sensibilità verso il BENE COMUNE, non può arginare il fenomeno della corruzione, “forza” anti-sociale ed anti-economica, che distrugge di ricchezza su più fronti:
1) Sottrae risorse allo sviluppo economico a causa di continue appropriazioni indebite.
2) Condiziona l’efficienza del mercato.
3) Aumenta la necessità dei “controlli”, ingessando il sistema economico a tal punto da renderlo sempre meno competitivo.
4) Rallenta il ricambio generazionale della classe dirigente e, di conseguenza, la “circolazione delle idee”.
5) Mina i principi democratici grazie a continui condizionamenti indotti dal sistema clientelare basato sul voto di scambio.
6) Favorisce l’incremento esponenziale del debito pubblico a causa dell’incessante sacrificio di un interesse comune per fini privati.
7) Si espande come un’infezione, fino a radicarsi in ampi strati della società, alimentando in maniera più virulenta le dinamiche esaminate.
D’altronde, ad ulteriore riprova, basterebbe constatare in che misura la qualità di vita sia direttamente proporzionale al grado di civiltà raggiunto da una comunità, un popolo, una Nazione, a prescindere dai tassi di crescita.
L’Australia, il Canada, le oasi felici del Nord Europa, quasi estranei alle “folli contese” che affliggono il mondo globalizzato, offrono ai propri cittadini un modello di convivenza evoluto perché culturalmente all’avanguardia.
In questi “paradisi” l’attitudine a produrre profitto passa in secondo piano rispetto alla capacità di una sua ridistribuzione efficiente. Tale virtù, oltre ad indubbie implicazioni morali, diviene scelta ECONOMICAMENTE PREMINATE perché in grado di alimentare il sistema economico all’infinito, in misura sostenibile, con il minimo sforzo: politiche a sostegno dei redditi più bassi, alcune delle quali rivoluzionarie, hanno consentito, infatti, il mantenimento dei consumi a livelli fisiologici preservando la ricchezza nazionale, anche durante questo lungo periodo di recessione.
Non pensiate per questo che tali paesi sfuggano alle leggi di mercato: essi si limitano a PRESERVARLO utilizzando dei correttivi normativi che, grazie al fine sociale, ne difendono le potenzialità, la longevità, la stabilità; giunti a livelli culturali elevatissimi, nella tutela del bene comune hanno trovato un’inesauribile fonte di ricchezza!
Ne consegue l’importanza strategica del sistema educativo di una nazione che dovrebbe, per quanto detto, investire in strutture scolastiche all’avanguardia e dotarsi di un corpo docenti di eccellenza (e dunque anche adeguatamente motivato e REMUNERATO).
I programmi didattici, poi, ancor prima delle classiche materie oggetto d’insegnamento, dovrebbero privilegiare l’aspetto EDUCATIVO delle nuove generazioni reintroducendo, per esempio, lo studio dell’educazione civica, finanche nella preparazione universitaria, al solo scopo di infondere e diffondere la CULTURA DEL BENE COMUNE (da cui trarre ricchezza per tutti).
Ed allora, parafrasando Robert Kennedy:
…Il PIL non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro paese.
E’ il grado di sensibilità all’interesse della collettività che può dirci se possiamo andar fieri di ciò che siamo.
Massimiliano Miceli
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