Pensiero Nuovo

In questo intervento cercherò di dare una nuova interpretazione al principio su cui si fonda il nostro sistema economico partendo dalla seguente affermazione: l’esistenza di soli ricchi rende tutti poveri.
Questo “nonsenso” nasce dal fatto che la ricchezza non è una misura assoluta bensì relativa. Chi guadagna mille euro al mese, infatti, è indigente nelle nazioni occidentali ma può diventare benestante in alcune parti del mondo dove il costo della vita è particolarmente basso. Analogamente, i grandi patrimoni sono tali in realtà dove l’elevata concentrazione di capitale non è la regola ma l’eccezione.
Del resto è sempre il principio della domanda e dell’offerta che regola ogni equilibrio economico: un bene di lusso è tale solo perché la maggioranza non può permetterselo.
Tutto ciò fa capire quanto sia fuorviante concepire la massimizzazione del profitto come una semplice “libertà” senza considerare, tuttavia, in che misura contribuisce ad aumentare le “disuguaglianze” su cui si consolida il seguente privilegio: sarò tanto più “facoltoso” quanto più alta è la miseria in cui vivo.
Lungi da me esaltare il comunismo o limitare ogni tipo di ambizione che appiattirebbe l’umanità verso la mediocrità; è necessaria una differenza retributiva direttamente proporzionale a requisiti squisitamente meritocratici. L’importante, però, è che tale “discriminazione” sia “socialmente sostenibile”.
Se il 2% della popolazione detiene oltre il 50% della ricchezza mondiale, l’impressione che qualcosa di perverso stia accadendo diventa certezza.
Questo “qualcosa” rappresenta il “peccato originale” su cui si fonda il sistema liberale teorizzato da Adam Smith. La convinzione che la sola iniziativa privata avrebbe garantito prosperità a tutta la società, infatti, sarebbe stata smentita da una “globalizzazione selvaggia” rappresentabile, allegoricamente, dalla celeberrima “corsa delle bighe” tratta dal colossal “Ben Hur”.
D’altronde, la crudezza dell’esempio richiamato non rimanda forse all’acerrima competizione internazionale in cui le uniche possibilità sono competere o fallire, vivere o morire?
La difficoltà di prevedere, agli albori del capitalismo, uno sviluppo tecnologico che avrebbe reso spietata la libera concorrenza, si somma all’ottusità di buona parte degli economisti contemporanei. Questi, nel plaudere all’iperselettività dei mercati, divenuta fonte d’instabilità sociale più che di efficienza economica, dimostrano l’incapacità di innovare una dottrina vecchia di decenni (vedi anche “la mezzanotte del capitalismo”).
E allora, ciò che proprio non mi convince, non è il fatto che ci debbano essere dei “vincitori” ma l’assenza di vie di uscita onorevoli per i vinti!
Del resto, è sempre quella bellissima curva rovesciata, definita rapporto di scambio, che ci mette in guardia da ogni eccesso: un mercato senza regole finisce col distruggere se stesso.
Per meglio comprendere queste ultime considerazioni, riproporrò la scena di un altro film, “A Beautiful Mind”, dedicato alla vita di John Nash.
Mentre il protagonista si trova al bar con amici, entra una bellissima “bionda” che cattura l’attenzione del gruppetto. Cominciano a moltiplicarsi le sfide per contendersi l’agognata “preda”, quando il protagonista ha la sua “brillante intuizione”: se “la bionda” rappresenta la scelta ottimale, tutti i contendenti, pur di averla, finiranno per ostacolarsi a vicenda. Date le premesse, sarà molto difficile determinare il “vincitore” ed, ancor di più, conseguire un risultato che possa soddisfare i vinti.
La scelta ottima, dunque, non può essere quella migliore per il singolo come insegna Adam Smith; la strategia vincente, invece, è cercare il COMPROMESSO che soddisfi tutti.
Nient’altro è che un “gioco” di azioni e reazioni in cui maggiore sarà l’avidità di un contendente, più violente saranno le contromosse degli avversari. Pensate al significato della “corsa delle bighe” richiamata in precedenza: se l’alternativa alla vittoria è la morte, chiunque sarà disposto ad uccidere per vincere!
Da queste premesse deriva il “centro ideologico” di una nuova teoria economica soprannominata “macroeconomia sociale di mercato” (che tale blog ambisce a diffondere) che si fonda sul seguente paradigma:
l’iniziativa privata va promossa e sostenuta a patto che sia contenuta nell’ambito di discriminazioni economiche socialmente sostenibili coniugando, in perfetta armonia, le ambizioni del singolo alla tutela del gruppo.
Quanto affermato non ha nulla di particolarmente innovativo se non nella giustificazione morale a quanto realizzato, in via accidentale, nel corso dei decenni: il Welfare State o la legislazione antitrust, solo per citare alcuni esempi, non sono forse limitazioni alla massimizzazione del profitto finalizzate alla difesa della collettività?
Semmai è dai concetti di “discriminazione” e “sostenibilità” che saranno sviluppati, in futuro, nuovi spunti di riflessione sul diritto di associazione, sui rapporti tra politica ed economia, sulla pressione fiscale, sulla concorrenza di mercato, sulla cosiddetta “piramide retributiva” nonché, persino, sui colori dominanti del presente blog: l’azzurro e l’arancione.

Massimiliano Miceli

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One thought on “Tra l’azzurro e l’arancione

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