Sebbene ritenga ben altre le reali motivazioni della crisi, è fatto assodato che continui ad essere associata alla gestione del debito.
Per fare chiarezza sull’argomento procederò con l’enunciazione di alcune proposizioni che evidenzieranno alcuni meccanismi fondamentali per la comprensione dell’argomento e delle sue sottili implicazioni.
Supponiamo troviate una o più persone disposte a prestarvi denaro e che, grazie alla vostra credibilità, riusciate a mettervi in tasca 2.000 euro senza fare assolutamente nulla (o quasi).
Siete particolarmente ben visti, non avete mai tradito un impegno e la vostra parola è sacra. Ottenete altri prestiti arrivando al ragguardevole traguardo dei 5.000 euro quando tutti cominciano a domandarsi come possiate rimborsare una cifra di gran lunga superiore rispetto allo stipendio che guadagnate.
La fiducia dei vostri creditori sta vacillando perché più aumenta il debito meno credibile è il suo ripianamento.
Da questo semplice esempio è possibile trarre una prima conclusione:
L’aumento del debito permette un immediato incremento di “ricchezza” da cui deriva una progressiva diminuzione di fiducia, persa la quale non sarà possibile ottenere altro credito.
Il debitore, quindi, riceve denaro “vendendo” reputazione fino al punto di collasso (perdita di credibilità / insolvenza).
Questo concetto, chiamato “rapporto di scambio” o “trade off” tra due variabili (rappresentabile matematicamente con una parabola rovesciata) è presente in tutte le dinamiche economiche e sociali.
È probabile, ad esempio, che chi lavora un’ora al giorno sia propenso a farne due anche se in corrispondenza di un aumento retributivo meno che proporzionale.
Chi percepisce 10 euro per un’ora, verosimilmente, ne accetterebbe 15 per due, 25 per tre, 50 per otto e così via.
Tuttavia, all’allungarsi della giornata lavorativa, l’interesse del dipendente si sposterà nuovamente verso il “tempo libero” richiedendo, per ogni ora di lavoro supplementare, retribuzioni sempre più elevate.
Anche in questo caso il datore di lavoro si muove lungo una curva rovesciata.
Nella prima parte, il suo rapporto di scambio è favorevole; può aumentare la produttività con quantità di denaro decrescenti.
Abusando di questo vantaggio, però, peggiorerà il suo “trade off” e dovrà incrementare gli incentivi per quantità aggiuntive di lavoro.
Da quest’altro esempio è possibile ricavare un’altra proposizione fondamentale:
Il passaggio da uno scambio favorevole ad uno non favorevole attraversa un punto di ottimo in cui il trade off è il migliore possibile.
Invito a notare, come spunto per future riflessioni, che il raggiungimento di questo fatidico punto ottimale è possibile solo in corrispondenza di una “regola”, di un sistema di norme, cioè, che opponga efficacemente il contraente debole (dipendente) a quello in posizione dominante (datore di lavoro).
Per esempio, i vincoli tesi a limitare l’indebitamento degli Stati e degli enti locali, che vanno sotto il nome di “patto di stabilità”, altro non sono che un insieme di regole tese a contrastare l’umana propensione ad aumentare il debito in cambio di reputazione.
Ultima considerazione. Se foste costretti a prestare denaro ad uno sconosciuto preferireste che fosse un alto funzionario della pubblica amministrazione o un operaio?
Premettendo che la risposta corretta a tale domanda non esiste (mancano, infatti, gli elementi fondamentali per capire quale opzione sia meno rischiosa), sono sicuro che in molti, ad istinto, avrebbero fatto una scelta ben precisa.
Ne deriva un’ultima affermazione:
La credibilità del debitore dipende dalla percezione (spesso fuorviante) che il creditore ha di quest’ultimo secondo un consolidato luogo comune che si sviluppa in base alla seguente associazione: potere – ricchezza – capacità di ripagare i debiti.
Esaminiamo la situazione attuale utilizzando le conclusioni raggiunte.
Nel 2008, il fallimento di Lehman Brothers sancisce la fine della “leva bancaria”.
Per decenni le banche avevano scambiato credibilità con debito per massimizzare i profitti (effetto leva o leverage) compromettendo a tal punto il “rapporto di scambio” da produrre poderosi fallimenti.
Per evitare l’implosione economica, gran parte di esse sono state salvate dagli Stati grazie all’ampliamento del debito pubblico pagato a caro prezzo in termini di reputazione.
Nell’estate 2012, l’imminente default della Grecia e di altre nazioni “periferiche” lanciò il segnale che anche gli Stati si erano spinti, pericolosamente, sino al punto di collasso del proprio “trade off”.
Persa anche questa possibilità, il sistema liberale ricorse all’ultima “leva” disponibile: il debito monetario.
Da tempo le banche centrali di tutto il mondo iniettano denaro nell’economia per coprire immensi buchi di bilancio.
Anche per loro, però, vale lo schema della parabola rovesciata:
possono stampare “carta” fino al raggiungimento del fatidico “punto di non ritorno”.
Ricordiamo, infine, come la capacità di ampliare il debito dipenda dalla “percezione del potere”. Benché l’economia statunitense versi in una condizione peggiore rispetto a quella nazionale, ogni investitore è convinto dell’esatto contrario perché condizionato dalla suggestione, a mio avviso superata, che ancora oggi esercita la “superpotenza”.
Questo dato di fatto consente un’interessante illazione geopolitica:
la salvaguardia di una reputazione costruita, prevalentemente, sul potere, costringerà il debitore a continue “prove di forza” strumentali al rafforzamento di tale convinzione.
Viene il dubbio, allora, che alcune nazioni non possano esimersi dal ruolo di “arbitro internazionale” e non tanto per questioni di carattere etico quanto per difendere una supremazia funzionale al mantenimento di rendite di posizione grazie alle quali sia possibile “spendere” più di quanto si produca.
Un’economia basata sulla crescita infinita del debito, dunque, oltre ad essere insostenibile, minaccia la civile convivenza dei popoli poiché aumenta esponenzialmente il livello di conflittualità mondiale.
Massimiliano Miceli
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Complimenti per l’articolo. Molto interessante. Continuate così, io sono un assiduo lettore!
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