Dopo l’esplosione di “Little Boy”, la bomba nucleare sganciata su Hiroshima, alcuni scienziati dell’Università di Chicago inventarono “l’orologio dell’apocalisse” che avrebbe dovuto scandire il tempo rimanente alla “fine del mondo”, convenzionalmente identificata con la mezzanotte.
Nel corso del secondo dopoguerra, in concomitanza di crisi internazionali che hanno avvicinato l’umanità verso un olocausto nucleare, si è sfiorata più volte la fatidica ora.
Oggi per fortuna, sebbene il mondo continui ad essere un “luogo pericoloso”, il sinistro orologio non desta particolare preoccupazione.
Eppure, se si utilizzasse un criterio analogo per misurare “l’ora” del sistema liberale, sono certo che le lancette si fermerebbero drammaticamente oltre il punto di non ritorno.
A volte rimango stupito dai discorsi di politici, economisti ed intellettuali. Riducendosi, nel migliore dei casi, a meri palliativi non contemplano un serio dibattito sulla validità di un “pensiero economico” il cui fallimento è oramai sotto gli occhi di tutti. Con il loro comportamento danno, da tempo, l’impressione di affrontare il problema senza averne la giusta percezione; di rispondere con azioni convenzionali ad una crisi straordinaria che meriterebbe di essere affrontata ponendo in discussione l’intero sistema che l’ha prodotta.
Credo sia di tutta evidenza, infatti, che non si tratti più di correggere qualche aspetto del mercato del lavoro, della previdenza pensionistica, del bilancio dello Stato o di qualunque altro squilibrio fisiologico dell’economia.
La vera scommessa, oramai, è rifondare un qualcosa che, nel suo complesso, non funziona più.
Se è vero, dunque, quanto appena affermato, va da sé che ogni provvedimento teso a stimolare l’agognata “ripresa” è del tutto vano in assenza di una seria discussione sulla dottrina economica dominante.
Questo liberismo è morto da un tempo, inutile farsi illusioni; anzi, più precisamente, è entrato in una “ciclica agonia” come già capitato nel corso della Storia.
Negli anni trenta, un brillante “visionario” di nome Keynes elaborò una nuova teoria macroeconomica che, grazie all’intervento dello Stato nel mercato, risollevò il mondo dalla “Grande Depressione”.
Dopo 40 anni il sistema Keynesiano entrò in crisi e toccò ad un altro visionario, Fridman, trovare delle risposte innovative per un’economia nuovamente collassata.
Sono trascorsi altri 40 anni e si ripropone una crisi sistemica che rischia di far precipitare il capitalismo con tutti i suoi “dogmi”.
La lezione che si può trarre è semplice.
Con puntuale cadenza il liberismo entra in crisi perché incapace di adattarsi ad una società in continuo divenire.
La dottrina economica, infatti, lungi dall’essere una scienza, dovrebbe essere mutevole per definizione, in grado di tradurre comportamenti umani, in continua evoluzione, in concetti economici.
L’errore madornale che si commette, invece, è pensare l’esatto contrario: immaginare l’uomo sottomesso a “regole” immutabili.
Ciò che più mi preoccupa, quindi, non è la crisi fisiologica (e per certi aspetti necessaria) bensì l’assenza di “visionari”, di uomini che abbiano il coraggio di mettere in discussione dogmatiche teorie al fine di stravolgere, con fantasia e genialità, i paradigmi di un’ideologia economica morente.
Diffidate, allora, di chi propone “aggiustamenti” in luogo di rivoluzioni.
Non ascoltate chi considera il “giocattolo” difettoso invece che irrimediabilmente rotto.
E’ tempo di cambiamenti epocali.
Massimiliano Miceli
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