Pensiero Nuovo

novembre 17th, 2014
Diciotto

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Sarebbe un numero come tanti, se non fosse che richiama uno degli articoli più controversi dello statuto dei lavoratori che sancisce l’impossibilità di licenziare un dipendente senza giusta causa.
Fa sorridere chi pensa di poter difendere un baluardo di tale importanza proclamando, di tanto in tanto, scioperi della durata di qualche ora; così come desta perplessità chi arringa le folle, in nome di storiche lotte sindacali, senza volerne riproporre l’asprezza.
Verso la metà degli anni ottanta, i minatori britannici protestarono, per mesi, contro le politiche economiche dell’allora primo ministro Margaret Thatcher. Fu una delle agitazioni più dure del secondo dopoguerra che si concluse con la vittoria del governo; molti furono i feriti e decine gli arresti.
Sebbene l’esempio richiamato abbia avuto un epilogo negativo, resta emblematico per il suo insegnamento: la difesa di diritti ritenuti fondamentali impone una protesta condotta ad oltranza che prescinde da qualsivoglia “timore reverenziale”.
Invece, dall’impietoso confronto con le cronache attuali, emerge un’attività sindacale di “parata” più consona a giustificare “rendite di posizione” che a tutelare i milioni d’iscritti.
Appaiono a dir poco inconsistenti anche le argomentazioni di Renzi il quale, spalleggiato da sedicenti economisti, ritiene che la libertà di licenziare aumenti le possibilità di assunzione.
Se tale affermazione è tutta da verificare, vi sono alcuni fatti che dimostrano l’esatto contrario:
come più volte ribadito dalle pagine di questo blog, quella odierna è una crisi dei consumi determinata dall’impossibilità di competere con alcune economie, prima tra tutte quella cinese. Pertanto il rilancio della domanda interna passa attraverso provvedimenti che aumentano le retribuzioni e tutelano i lavoratori e non il contrario.
I consumi, d’altronde, dipendono dalle aspettative sul futuro che, mai come in questo caso, saranno funestate dall’abolizione dell’ennesimo diritto con conseguenze catastrofiche sulla spesa procapite, causa di nuovi licenziamenti.
Il problema di fondo, invece, risiede nell’ostinazione dei nostri politici ad assecondare un mercato foriero di squilibri sistemici anziché immaginarne uno stravolgimento.
A ben guardare, d’altronde, tutte le crisi del sistema liberale hanno imposto storici “cambi di passo” che si sono concretizzati nella misura in cui sono stati sostenuti da una classe dirigente adeguata.
La mediocrità degli odierni governanti, al contrario, si sostanzia nell’incapacità “d’innovare” associata all’ottusa colpa di “rispettare” regole obsolete.
Detto ciò, non pensiate che sia a favore del mantenimento dell’articolo 18.
Esso rappresenta solo una battaglia ideologica che, con argomentazioni pretestuose, consente ai sindacati di mantenere il consenso tra i lavoratori ed al governo di “strizzare l’occhiolino” agli imprenditori.
È, invece, il contesto all’interno del quale si applica o si abolisce una norma che decreta l’efficacia di un provvedimento.
Negli usa, ad esempio, simili tutele non sono contemplate né, tantomeno, necessarie:
alte retribuzioni, meritocrazia, accettabili sussidi di disoccupazione attenuano gli effetti negativi del licenziamento sia in termini economici che sociali.
In Italia, per contro, bassi stipendi, la difficile ricollocazione (soprattutto superata la fatidica età dei 50 anni), barriere corporative erette dalle più disparate “caste di baroni”, rendono la perdita del lavoro una disgrazia da cui difficilmente ci si può riprendere.
Ciò che realmente dovrebbe interessare, dunque, non è il dibattito sul provvedimento in sè ma gli effetti che quest’ultimo ha sul sistema economico e sociale di riferimento.

Massimiliano Miceli

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